Categoria: Arsenale
Pagine: 256
Prezzo: € 22,00
ISBN: 9791281124035
Anno: 2023
Note: In copertina: Archi n. 7 (1998) di Guido Strazza


Alla scuola del disincanto

 

1. Che un autore rimanga chiuso come un’ostrica per anni conta, oppure no? Non conta se lascia la sua opera in quel silenzio e in quella attesa che prima o poi saranno interrotti. Le pagine scritte rimangono dove sono state sistemate, al loro posto, senza che la polvere accumulata offuschi il loro essere e le releghi in un inaccessibile oblio.

Ora, con perfetto tempismo (nulla risulta più attuale dell’inattuale) Francesco Paolo Memmo tira fuori dal suo cassetto ideale quelle benedette pagine, le raccoglie in una sapiente miscellanea e le consegna, certo che sapremo farne qualcosa.

Linea di basso ostinato. Poesie 1971-1997 (titolo e opera qui perimetrati e indagati) allude alla pratica più semplice, quando si prende partito per il linguaggio poetico e lo si porta a cozzare (con ostinazione, ça va sans dire) contro il corpo sordo delle nostre coscienze, svuotate ormai della capacità di comprendere se stesse e l’altro da sé, l’interno e l’esterno, il vecchio io penso e l’ancor più vecchia res extensa.

Critico raffinatissimo, degno curatore del corpus vascopratoliniano, innamorato del jazz che tratta da esperto musicofilo, poeta in proprio, Francesco Paolo Memmo può costituire una rivelazione per il lettore del terzo decennio del terzo millennio. L’idea di letteratura del Nostro deriva da una personale scuola del disincanto, incentrata sui toni dell’ironia e dell’autoironia, sui registri di un razionalismo dubitante e di un grado zero di sentimentalismo e lirismo d’accatto.

Alleggerito dei suoi cascami storici, l’io poetante si intesta un percorso scrittorio teso come una corda fra radicalità (la rilettura di Breton e del Surrealismo) e riposizionamento dialettico rispetto alla tradizione (la riformulazione della prosodia in Rimario, la penultima sezione del libro).

Invenzione e attenzione vengono sovrapposte programmaticamente: aiutano a diffidare delle idee postmoderne che corrono (senza lasciare traccia e scarsamente intelligibili) più veloci della fantasia pindarica.

Il Nostro invece compone su basi di pensiero solidissime e con grande inventiva i suoi esercizi di stile etico-sociali («I discorsi sui corsi e sui ricorsi / della storia, sulla memoria che sembra / persino la materia possieda, / sulla miseria umana, sul destino / di noi poveri mortali, sui mali generali, / sui generali, sulle Generali / quotate in borsa, sulla morsa dell’inflazione / che si allenta, sulle fondamenta / del diritto (magari i fondamenti), / sui dementi in libera uscita, / e su, di nuovo, la vita», testo 11 di Rimario).

Fatiche di Ercole o periplo ulissiaco, le dodici sezioni del libro suonano come le dodici battute del blues, come gli strani accordi del geniale pianista jazz Thelonius Monk, o ancora come i soffi straziati della tromba di Miles Davis: splendide tessiture musicali elaborate da un poeta energico, ragionatore, sempre vicino alle ansie della Storia e alle degradazioni della realtà, desideroso di sentirsi in armonia con l’ambiente circostante, ma sempre respinto e costretto alla ricerca irrisolta di un ethos profondo.

Oltre alla verità sfuggente delle cose e dei fatti, Francesco Paolo Memmo è interessato alla dimensione morale dell’esistenza, per questo le sue onde interrogative si allungano fino al lettore, coinvolgendolo in una comune tensione ideale, nella condivisione della stessa sostanza sensibile che si sprigiona dal pensiero.

 

2. Linea di basso ostinato. Poesie 1971-1997 è un libro plurimo, poeticamente aperto, costellato di pinnacoli logici e interrogativi, irti sopra pianure d’incertezze e tempeste di pensieri: un dinamismo da togliere il fiato, vocazione a procedere oltre senza arrestarsi davanti a nessun confine di ragione e torto, di delusione e illusione, di poche compiutezze e di tante incompiutezze («così soltanto il bianco sarà bianco / e il nero nero così dirò dirai risponderò e tu / replicherai deciderò farai / sospesa la sospensione del giudizio / esorcizzato il dolore ogni terrore / abolite parentesi e rimandi e io / io senzagioia in cerca / potrei anche non farcela», Intervento per intervento onirico).

In un libro plurimo agli epigrammi meditativi e a straordinarie strofe dialogiche (un interminato colloquio con un tu concreto e storico) si aggiungono le piccole ballate della memoria, nelle quali emergono personaggi di rilievo (Edoardo Sanguineti, tra gli altri), oppure semplici persone di un tempo perduto e ritrovato (la «vecchia rimbambita» e il «suo vecchissimo sangiuseppe in mutandoni»), così come i miti adolescenziali e infantili, prima polverizzati e ridotti a limatura di ferro, poi ricomposti per un’ultima volta, per una definitiva e irrecusabile sistemazione nel magazzino dei ricordi («Dove noi abbiamo consumato / la nostra fanciullezza: epica solo / per scherzo, squallida certo, anche poco / felice se è per questo», La stanza dei giochi).

Si arrovella l’Autore, riflette, pondera, si tira fuori dalla mischia e, subito dopo, vi si getta con furore: è il lavorìo della mente di fronte alla problematicità della vita, al netto di audacie metaforiche che qui non compaiono e che non sembrano necessarie.

Viene in primo piano una sorta di realismo morale, un bisogno di sottrarre le categorie del politico e del sociale a una lettura omologante e ripetitiva, lasciando intravedere al contrario la necessità di una dialettica franca, di una spassionata discussione sulla relazione fondativa individuo-società. Da un lato la tensione conoscitiva e il vigore della denuncia, secondo la linea tracciata dalla scrittura materialistica degli anni Settanta e Ottanta, dall’altro il tentativo di ridefinizione del linguaggio poetico, operando un confronto con l’aspra ricerca modernista di inizio Novecento e con l’insopportabile ermetismo ungarettiano-montaliano (“L’inno lasciato nel freezer / da far sortire dal cappello magico / a Eliot a Pound a William Carlos Williams / e anche a te gran santone Ungaretti / e a te indifferente Montale / oggi che celebro il vostro funerale // e il mio con voi // già mutato in un coro di gracchianti prefiche”, Secondo intervento, in tre tempi).

Che tipo di persona e di poeta è colui che si mette a parlare di acidi che corrodono, di volti butterati e di parole sciolte nei liquami della vita (La lista, da Le precipue funzioni, terza sezione)?

Di certo uno a cui piace decifrare più che contemplare, a cui fa gioco la macchia d’olio (sempre più larga) delle discussioni sui massimi e sui minimi sistemi più che l’onanismo lirico e le finte profondità dei sentimenti (idee dominanti messe in circolazione dalle classi dominanti).

Francesco Paolo Memmo pratica i bassifondi, la Suburra, perché l’antagonismo si costruisce dal basso, raschiando la terra, grattando via il sudiciume che il Potere lascia ispessire sulla pelle degli ultimi, poi si può finire a discuterne in terrazza, ma essendo planati sul concreto, avendo contribuito a una sana ecologia della mente («(Una poesia? Un assegno in bianco? / Un verbale d’inconciliazione? Un domestico conto / della spesa?) / Può essere il modo peggiore, / piuttosto, se la memoria t’inganna, se il presente / perde la sua strenua battaglia (con chi?), se / per troppa fame la pelle continua a consumarsi, / se la consumazione della pelle consuma a uno a uno / i mediocri residui dell’alibi in una sala da pranzo», Carcinoma).

Il fulcro di questa poesia è il pensiero, non il sentimento. L’archetipo è Lucrezio con la sua fredda e incandescente raffinatezza: la sfida è rivolta al gusto di noi contemporanei (spesso mieloso e lacrimoso), per questo Francesco Paolo Memmo ribalta il privato nel pubblico, procede per induzioni, per assetti logici paradossali al limite di un razionalismo sarcastico, dissacrante che spollina ironie e aporie con invidiabile nonchalance.

Il Nostro non mette su i mattoni di una scuola poetica (non ne ha il tempo e certo nemmeno la voglia), tuttavia da buon innovatore solitario e appartato si danna nella difesa dei due cardini della scrittura poetica: la funzione rivelatrice e la funzione libertaria.

Impietose nella loro sincerità, certe pagine mostrano la loro tramatura tagliente come se si giocasse una partita stramba tra una scacchiera sbilenca (la realtà) e i pezzi mangiati dall’indifferenza, dal male di vivere, dalla nausea del consumismo (gli individui): «e invece non sanno. C’erano tutti / e io fra loro a tutti indifferente / in lite con il mondo – le bugie / si allungavano come serpenti – sputavo sentenze godevo dell’odio / che cresceva docilmente pesandolo”, Forse se gli altri sapessero).

 

3. Separata dal gorgo della banalità, dal flusso delle chiacchiere letterarie e non, la scrittura di Francesco Paolo Memmo si offre nella sua teatralità al dialogo con amici, interlocutori, sodali, artisti, contubernali d’occasione e di lungo periodo, evocati dalla polvere degli anni in un discorso poetico-prosastico sempre in equilibrio, pacato, ma con accenti discontinui in battere e levare, propri del flow sincopato della musica jazz, capaci di conferire ai testi un’indiscutibile particolarità tutta memmiana.

Così un poeta venuto dagli anni Settanta del Novecento, ma contemporaneo d’adozione, esce dal proprio confine/confino per distendersi nel ritmo largo dei recitativi, per contrarsi nel ritmo nervoso, causticamente paratattico dei monologhi, con l’intento di non far scattare la tagliola del verso tradizionale, liricamente e sublimamente impostato a endecasillabo. Una versificazione libera, dunque, ma geometricamente calcolata con i punti di intersezione e di congiungimento dei segmenti sonori. Esemplare il testo dedicato a Anna Malfaiera, La necessità del respiro¸ dove la linea del basso ostinato del titolo diventa visibilissima nella sequenza armonica esperienza-resistenza-vigilanza-perseveranza-significanza, rafforzata ulteriormente dall’accompagnamento di fonemi allitteranti («il tuo pensiero che pensa di pensare»).

Francesco Paolo Memmo si inerpica su per i sentieri di una lucida e consapevole passione con la quale riempie di luce i suoi testi: da una parte rialza la poesia creduta morta dai più, dall’altra restituisce valore in generale al mestiere di scrivere per una collettività pensante, rigenerandola e consolidandone l’identità.

Salire su fino alla sommità del pensiero e dell’immaginazione produttiva significa porsi un obiettivo non da poco, perseguito con assoluta caparbietà e con infiniti ripensamenti e altrettanti dubbi. Adelante, Pedro, con juicio, si puedes.

 

Donato di Stasi

 

Nereidi, 27 marzo 2023

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